Sabato 10 luglio 2004





A Voltri, in centro, da "u Veximà", cucina essenziale, storica: farinata e polpo lesso. L'abbiamo scelto perché nel pomeriggio alcuni di noi saliranno poco distante a trovare un compagno che ha "un male". Giornata caldissima; in attesa di metterci a tavola ci diamo tono chiacchierando. Sono in un gruppetto dove c'è anche Papiroski. D'improvviso si rivolge a me: "Nella stanza col cartello del primo giorno di lavoro (il gioco stanza e cartello ha colpito un po' tutti), prima o poi dovremo entrare". Lui ci è già entrato per conto suo e vorrebbe che ne parlassimo. Apprezzo: non siamo molto in confidenza; mai capitati vicini nei precedenti incontri conviviali. Papiroski è alto, magro, con un gozzo pronunciato e dal profilo tagliente. La prima volta che l'ho visto m'ha ricordato una illustrazione di "Capitan Fracassa", un libro che avevo da ragazzo. Ha una andatura curiosa, dinoccolata: appoggia un piede e poi, prima di arrivare a compiere il passo con l'altro, inizia una complicata ricerca di equilibri e controequilibri. Come se la terra gli tremasse sotto. Un modo di camminare che si vede tra la gente dei monti e lui, Papiroski, è di origini valtrebbine. In Valtrebbia c'è ancora la casa di famiglia da dove, da ragazzo, è sceso in città. Sta per tornarci: ieri, dice compiaciuto, è stato l'ultimo giorno di lavoro. In realtà dovrebbe andare in pensione dal primo d'agosto ma, aggiunge, "prima gli pianto una bella mutua". Poi, come a scusarsi con me della libertà che si prende, aggiunge "sai, io son di quella generazione che mutua ne ha fatto poca... Ai tempi miei non è che si potesse e dopo... dopo eravamo diventati che ormai non la facevamo". Parla lentamente, con una bella voce: basso naturale. Ha cantato, e ancora va in giro a cantare con gruppi di trallallero.
Papiroski è un soprannome. Alla fine degli anni Cinquanta aveva fatto parte di una delegazione di operai italiani in URSS da dove era tornato con una intera valigia di sigarette delle loro: metà tabacco e metà bocchino. Era, dice, la "realizzazione" del socialismo che più l'aveva colpito; comunque - mi ha detto serio - quella che certamente faceva meno male. E siccome non era un gran fumatore la riserva era durata per vari mesi, abbastanza perché gli venisse affibbiato quel soprannome, a volte amichevolmente abbreviato in "Papìr". Intero o abbreviato, comunque non sembrava gli dispiacesse.
Papìr non vuole parlare del primo giorno ma di qualcosa che ragionevolmente dovrebbe finire nella stessa stanza. Cioè degli incontri risultati importanti nel determinare il comportamento del giovane operaio dopo il suo ingresso in fabbrica. "Entri, ti guardi in giro e vedi tutto e niente. Ci vogliono settimane, mesi per orientarti. Ma anche gli altri, quelli che sono lì, ti vedono, ti studiano; come parli, come lavori, come mangi, tutto". Entrato a lavorare nel '66 "ma ero già grande, 23 anni; grande, alto e timido", aggiunge ridendo. Era stato fortunato, dice, perché aveva incontrato uno che, anche se aveva solo 4 o 5 anni più di lui, sembrava già vecchio, "uno posato, tranquillo". Una specie di fratello maggiore come quello che lui aveva perduto a 10 anni - "lavorava in una cava di pietre, lassù, era saltato in aria: una cosa che allora non era neppure rara". Il tipo "posato" aveva capito che lui, Papìr, era un "disperso" e lo aveva adottato. Un bravo operaio, mani capaci, "un compagno anche se non parlava mai di politica". Lo aveva iniziato: alla macchina, il tornio, a non farsi prendere dall'ansia della bolla, a prendere tempo nel rispondere, a osservare le norme di sicurezza: "era un meticoloso; maschera, occhiali e guanti, sempre, oppure niente lavoro". Perché, gli spiegava, "sei giovane e credi di avere 4 occhi, 4 braccia, due schiene ma dopo qualche anno, capisci che quello che credevi di avere in più è già finito".
"Se non avessi incontrato lui non so se ci avrei fatto vita - dice Papìr - perché dopo che sei entrato ti viene quella malinconia che ti sembra che faresti qualunque altro lavoro pur di andartene. Ma se non te ne vai subito... dopo è tardi". Per questo lui, Papìr, era rimasto. Il suo amico fratello maggiore invece se n'era andato, sempre in una fabbrica ma a Monfalcone. "Era un nomade; riusciva a stare dovunque come a casa sua. Anche per questo mi sembrava superiore agli altri".
Alcuni degli "altri", nel gruppetto che si è formato attorno Papir, ricordano il personaggio; ma senza particolare interesse. "Uno gentile con tutti ma che viveva da sé: compagno, scioperi, tutto regolare ma... non ti faceva mai sentire a tuo agio. Tant'è che di amici non aveva". Lino, chiosa con aria di chi la sa lunga: "u l'ea un pedagogu" e ridacchia. Ma si prende un paio di occhiate severe. Luigi interviene a ricucire. "Sei appena entrato, spiega, e già sei sotto spinta: il lavoro, la bolla, quello che cerca di fregarti, quello che ti mette in guardia, quello che ti fa domande... E poi il capo, la disciplina, la paura di sbagliare, di non sapere... Chi ti dà una mano diventa la persona più importante. Poi, si capisce che va a caratteri, a simpatia. Perché si può imparare molto, anche da uno che è una leggera...". Per lui, ad esempio, era stato importante Didòn, operaio saldatore così soprannominato per l'intercalare dit donc a cui, per essere cresciuto nel Nord Africa francofono, ricorreva spesso. Allegro, esplicito in tutto, mussa e politica, toni da "compagnone" e, specialmente, uno che parlava coi ragazzi, li cercava, li provocava ma anche li ascoltava, li metteva a loro agio. "Una chioccia: l'Unità in tasca ma a volte anche un giornale sportivo, una rarità. Raccontava bene: storie della sua giovinezza; sapeva scrivere e aveva anche letto".
Sull'onda delle battute di Luigi, vengono fatti altri nomi. Ne esce una galleria di personaggi in diverso modo importanti, gente che ha insegnato, che ha aiutato "o che magari anche solo guardandoli hai imparato a vivere". E' un aspetto della vita di fabbrica ovvio solo per quelli che son lì: penso - ma non lo dico - che dovrebbe entrare in qualche modo nel museo. Potrebbe intitolarsi "valori sociali diffusi" o qualcosa del genere. La fabbrica era una comunità di circa 2000 persone che si conoscevano tutte almeno di vista e in buona parte direttamente. Anche di quelli con cui non c'era confidenza si sapeva. Oltre le conoscenze comuni c'entravano le storie familiari, la passione politica, quella sportiva... Poi, importantissimi, gli scambi di informazioni utili: dove comprare a condizioni più favorevoli materiali per la casa, la moto, l'orto e altro ancora. L'organizzazione politica e quella sindacale erano solo due tessiture, neppure le più rilevanti, di quelle che intrecciavano le loro vite di operai. "Se dovevo comprare una gomma per la Vespa andavo da uno che era lì dentro con me che sapeva sempre dove in quel momento conveniva andare. Ma era così anche per l'olio dell'insalata...". Nel "museo degli operai" ci dovrebbe essere qualcosa che faccia capire come la fabbrica è un luogo di scambi, di informazioni e quindi di formazione umana, morale, politica ma non solo. Un sistema per molto tempo insostituibile soppiantato in tempi recenti - ma da quando? - dalla televisione, dall'informazione pubblicitaria e altro ancora. Ma in questo secondo caso si tratta d'un sistema che rispetto al precedente manca della possibilità di controllo, verifica... Un sistema a senso unico: inghiottire e basta.
La questione del "primo giorno di lavoro" e quella degli "incontri importanti" va insieme a quella, che Papiroski ha ricordato e altri han confermato, del decidere se restare o cambiare lavoro. Ne accenno verso la fine del pranzo ai due che ho vicini a tavola. Gli chiedo se hanno mai pensato o aspirato a cambiare lavoro, a togliersi di lì per migliorare. Dei presenti so che solo Ezio, tra i vecchi, e Pippo, tra i giovani, hanno scalato col tempo altre posizioni.
Elio dice che negli anni Cinquanta i momenti di crisi personale c'erano stati eccome. La notizia che modeste attività, ad esempio dell'impiego pubblico, fossero retribuite meglio dell'operaio produceva angosce improvvise, frustrazione ed anche rabbia. Se ne parlava per giorni e in seguito a quelle discussioni era capitato che alcuni fossero "usciti". Se poi si veniva a sapere che gli "usciti" erano finiti a fare gli operai in qualche piccola officina del porto, dove magari erano diventati capi ma niente di più, la notizia aveva un effetto pacificante. "Vedi, alla fine, anche loro son sempre lì...".
In generale però, dopo che eri entrato in fabbrica, la situazione era giudicata senza uscita. Qualche possibilità c'era stata nei primi anni Settanta; in ferrovia ad esempio. Luigi ha ricordato di aver accarezzato a lungo questo proposito salvo rinunciarci quando le possibilità di spiccare il volo si erano presentate. Perchè non se l'era sentita di abbandonare solidarietà e amicizie nate nella bella stagione delle lotte tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta. Una scelta che in casa - già sposato e con due figli - aveva mimetizzato convinto che non sarebbe stata facile da condividere. Non era con una filosofia politica che si era confrontato ma con sentimenti, "modi di pensare che in quegli anni ci avevano cambiato tutti".
Diverso il caso di Ezio che, molti anni prima, nel 1961, aveva preso la decisione di andarsene. Lui non aveva alle spalle le lotte vincenti del '68 e del '69, il nuovo inquadramento che apriva a qualche crescita professionale o un contratto che prevedeva che ti pagassero per tornare a scuola. Tutto il contrario. Ma era stata durissima egualmente. Se n'era andato, racconta, perché dentro gli si era rotto qualcosa. Alle spalle aveva quasi 15 anni di impegno di militante, comunista, segretario di cellula, diffusore dell'Unità, attivista a tempo pieno. Ma "non ne potevo più di salvare il cantiere, di scendere in strada. All'ennesima crisi produttiva ho preso la decisione di andarmene ma non ero il primo; piuttosto il duemillesimo. Anche questo ha avuto il suo peso. Quel compagno se n'era andato, quello anche, così quell'altro e l'altro ancora. A questo punto anch'io mi sono sentito autorizzato a lasciare. Nel 1960 avevo 37 anni e non potevo andare avanti con Ansaldo, sempre crisi, sempre manovale specializzato. Vanno via tutti, ho detto, vado via anch'io. Quello che dovevo fare l'ho fatto". Ma era stato egualmente uno "strazio": "abbandonavo un fronte ormai sguarnito che il mio gesto contribuiva a indebolire; non mi importava l'abbandono del partito ma dei compagni di lavoro. Disertavo". Ezio parla di una realtà distante anni luce da quella che, non a caso, ha suggerito a Luigi di restare e che ha permesso a Pippo di tornare a scuola e diplomarsi dopo di che era rimasto, ma col ruolo di impiegato, nella Sala prove dove già aveva lavorato come operaio.
Ma anche allora, in quegli stessi anni Settanta, proprio all'inizio, quando sembrava che le cose cambiassero per davvero, ricorda Luigi, c'erano state uscite, uscite "pesanti". Operai che nelle lotte dei mesi precedenti avevano avuto ruolo di leader nei comitati di base e nelle assemblee a cui il sindacato aveva offerto di entrare nell'organizzazione; diventare funzionari. "Portare la nuova esperienza organizzativa e di lotta dentro la struttura sindacale e tra le altre categorie": questo era stato lo slogan. Una indicazione largamente sollecitata dal partito comunista a cui gli interessati erano iscritti. Tra gli interpellati non tutti avevano accettato anche se i vantaggi, economici e "morali", erano evidenti.
Sono sufficienti poche battute da parte dei presenti per capire come quelle "uscite" avessero lasciato l'amaro in bocca. In seguito, anni dopo, si era tornati a rifletterci. "C'è poco da dire - la battuta è di Ugo - erano tra quelli che facevano marciare la fabbrica. Con cui, a partire dalla fine della guerra, avevamo toccato il punto più alto. E dall'oggi al domani se ne partono. Nessuno è insostituibile ma c'erano voluti anni per creare una situazione come quella. Che poi non è che l'avessero creata loro. Perché il '68, è una cosa successa per un casino di ragioni, una "congiuntura" che forse non ci sarà più. E loro erano importanti perché era gente che anche se aveva un piede nel passato - la nostra era una fabbrica un po' vecchia - dall'altra si erano buttati nella lotta, l'avevano capita. Comitati di base, assemblea, democrazia diretta non erano parole che gli avevano fatto paura. E poi di colpo, via, a rafforzare il sindacato, si diceva, ma intanto la fabbrica, noi, restavamo col culo per terra".
Elio è uno degli "usciti" di allora. Aveva alle spalle una antica storia di partito e di sindacato, ma era stato anche uno degli interpreti più decisi del nuovo corso, le lotte e i comitati del '68 e '69. L'offerta del sindacato lo aveva convinto anche perché, ha detto, aveva sulle spalle più di 20 anni di fabbrica e non ne poteva più. Così era andato a fare il segretario degli "alimentaristi", aveva lavorato bene - ci sapeva fare - ed era stato apprezzato. Altri due erano andati a dirigere delle leghe periferiche; un altro ancora era andato in ferrovia.
Quel che accomuna i presenti, tutti, è la consapevolezza della fabbrica come un destino comune che permane anche là dove casi particolari offrono soluzioni personali. Una comunanza che non si limita ai compagni di fede politica o sindacale ma si estende a tutti i compagni di lavoro. Lo faccio notare a Ugo che accenna a una scrollata di spalle: "Ma è normale. Sei lì, nella stessa casa, sotto lo stesso tetto. Se piove addosso a te non è che gli altri restino all'asciutto". "A meno - completa Lino - che tu non sia un crumiro". L'uso del termine in quel contesto mi sorprende. Ezio integra: "C'erano anche quelli dei sindacati bianchi che a volte crumiravano ma era diverso. Crumiro è un individuo completamente estraneo alla vita della fabbrica; politica, sindacale, morale. E' un individualista: solo e sempre scelte personali; un asociale. Non volevano rimetterci i soldi dello sciopero, non facevano parte del gruppo; niente destino comune. Erano anche quelli che potevano rubacchiare con la certezza di non essere perquisiti. Era uno scambio: faccio il crumiro, magari faccio anche un po' la spia, accetto il disprezzo degli altri, di essere isolato ma tu padrone mi lasci stare. Ecco perché il crumiro è importante nella fabbrica".
Mentre vengono ricordati casi di gogna inflitta a crumiri si viene a sapere che ad alcuni dei presenti il termine era sconosciuto sino al momento di entrare in fabbrica. Come nel caso di Luigi. "E' sul lavoro che ho saputo del crumiro; non era tanto quello che non faceva sciopero; piuttosto era un asociale, uno che pensava solo agli affari suoi. Diverso dalle spie, che c'erano ma erano altra cosa. Se vuoi far sapere qualcosa al capo, m'avevan detto quasi subito, basta parlarne con lui. Lui era uno che lo faceva per tornaconto, miserie. Andava in giro, spiava. Se vedevo che mi guardava io stavo zitto ma mi chiudevo il naso con le dita. Come dire: puzzi; sei un pezzo di merda. Infatti un altro come lui lo chiamavano il merda. Personaggi viscidi". Così anche Pippo: "Crumiro? Una parola sentita per la prima volta in fabbrica. Uno che non stava alla decisione comune. Diverso dal ruffiano, dalla spia. Per me crumiro va con la parola lotta: è quello che non ci sta".
C'è anche il caso di parole già note al momento di entrare in fabbrica ma che lì dentro assumono un significato diverso. Come ad esempio solidarietà. Pippo la conosceva perchè aveva un passato di chierichetto, di attività nel CALAM (Centro aiuti lebbrosi ammalati nel mondo) e leggeva "Nigrizia". In fabbrica però aveva scoperto "un modo diverso di coniugare la parola solidarietà: non solo come dare ma, allo stesso tempo, dare e ricevere". Diverso il caso di Luigi che la parola solidarietà l'aveva sentita per la prima volta in stabilimento. Anche se nella sua famiglia, precisa, non c'era l'egoismo che vede in tante famiglie di oggi che invece quella parola la pronunciano spesso. A lui sembra di averla sentita per la prima volta durante una raccolta di sangue per il Vietnam. Dopo di allora aveva continuato a fare il donatore. Solidarietà erano state anche le collette per questo o quel compagno in difficoltà, e poi esserci: l'alluvione del Settanta, il terremoto dell'Ottanta...
La riflessione sulle parole nuove o rinnovate dall'esperienza di fabbrica (una stanza delle parole?) ha interrotto quanto si stava dicendo a proposito della questione delle "uscite" dallo stabilimento di alcune figure prestigiose delle lotte del '68 -'69. C'entrano o no col museo degli operai? Oggi sono state sufficienti poche battute per indicare concordemente gli anni '68, '69 e in parte '70, come anni che hanno cambiato la vita della fabbrica. Con parole diverse tutti hanno detto che in quegli anni, si sono saldate storie e aspirazioni più antiche con altre recenti (i giovani). Saldatura laboriosa, anche dolorosa, comunque conflittuale. Anni in cui si era respirato un'aria diversa. Era stata la scoperta della dignità negata - "una esperienza straordinaria" - che aveva suggerito a molti di non prendere il largo dalla fabbrica. E anche chi era andato a "rafforzare l'organizzazione" lo aveva fatto convinto di tenere aperta la porta a quel vento. Quegli anni avevano cambiato l'operaio, almeno quello di allora perché gli avevano restituito se non la stima almeno l'interesse della società. Era la prima volta che succedeva a partire dalla Liberazione ed era una cosa che forse nel museo degli operai doveva esserci. Ma come? Ci sono le vignette del '68 e 69, Gasparazzo, i giornalini di fabbrica... tutti segni del cambiamento della coscienza, del nuovo ottimismo. Lino, ironico ma piuttosto sullo scazzo, osserva che bisognerebbe anche metterci com'è finita: "perché vi ricordate come è finita, no (ve vegne in coeu cumme a lè finia, nu)?"
E' a questo punto che si è sentito Carmelo. "In te quella cosa lì che fè - ha detto - duviesci mettighe anche u partiu". Poi, dopo una pausa, ha aggiunto "e seràghelu ben; che u nu sciurte". Carmelo, cresciuto a Genova ma figlio di siciliani immigrati, è stato iscritto al partito comunista dal 1965. Anni in cui l'appartenenza al partito sicuramente non facilitava la sua vita di operaio. Carmelo - attorno ai 65 anni, capelli fitti, lisci, nerissimi - non parla molto ma è un ascoltatore attento. La sua battuta si offre a varie interpretazioni e ha stupito i presenti. Ha chiamato il museo "la cosa che fate", come a tenersene fuori o solo perché la parola museo non è nel suo vocabolario? O forse con "la cosa che fate" si è riferito all'ultima battuta di Lino che chiedeva che si raccontasse com'era finita la bella storia? Comunque la sua proposta di dedicare al "partito" una sezione del museo - precisando che bisognava anche chiudercelo - a tutti è apparsa amara.
Nelle chiacchiere scambiate tra noi sino ad oggi il partito è comparso come una entità che nella vita di fabbrica ha avuto un rilievo indiscutibile; sia pure con le diverse sottolineature legate alle esperienze e all'anagrafe di ognuno. Carmelo ha ragione: al partito andrebbe riservata nel museo almeno una stanza; al momento però, nessuno si è offerto di tenerne la chiave.


Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


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